di Francesco Cavalli
In questo articolo Francesco Cavalli ci guida in una riflessione sul fondamentale ruolo del setting nella relazione con l’altro, ci invita a fermarci ad analizzare il vero significato del non giudizio e i benefici che può apportare in una relazione di qualsiasi tipo, anche lavorativa.
Lettura consigliata a: operatori sociali, educatori professionali
Spesso, soprattutto nelle reti tra operatori sociali, sentiamo parlare di relazione non giudicante. In confronti tra operatori vengono nominate espressioni come “non giudicare” o “assenza di giudizio”. Molte volte questi termini diventano un mantra per potersi riposizionare in una relazione, mirando ad un’apertura, sperando che l’altro non si senta giudicato, promuovendo un incontro e il dialogo. Noi operatori comprendiamo l’importanza che ha il non giudizio per non creare lontananza, tuttavia, ci portiamo dentro cose che ci danno fastidio dell’altro o degli altri e da tali aspetti ci difendiamo o prendiamo le distanze e, giudicandole, le marchiamo inevitabilmente lontane da noi.
Con questo articolo voglio provare a condividere una riflessione sui significati e sulle opportunità che la relazione non giudicante porta con sé, come approccio nel mondo delle relazioni; non come mero metodo per evitare il giudizio, ma come solida “postura” dell’incontro con l’altro.
Partendo dall’analisi di Max Weber per cui “L'uomo è un animale sospeso fra ragnatele di significati che egli stesso ha tessuto”, l’operatore sociale non è un alieno, vive e cresce nello stesso mondo dell’altro! È impossibile starne fuori, nemmeno avvalendosi di un setting neutro e di osservazioni oggettive: immaginate il grande tifoso di una squadra di calcio che si reca allo stadio e, al posto di tifare la squadra, si mette invece ad osservare e analizzare il comportamento degli altri tifosi senza dare alcuna importanza al gioco. L’educatore in veste di professionista delle relazioni, si confronta con infiniti setting, pensati e ricercati, ma anche frammentati e imprevedibili. Questo succede anche davanti alla rigidità di un percorso obbligato “dell’utente” previsto da un tribunale o da un servizio sociale.
Prima ancora di interrogarsi sulla dimensione del giudizio o non giudizio che intendiamo analizzare, dovremmo focalizzarci sul significato che attribuiamo all’incontro con l’altro: il famoso qui ed ora. Partendo dall’affermazione di De Martino “chi sale e chi scende una rampa di scale si incontrano necessariamente su un certo gradino: ma quel loro incontrarsi non significa che nel momento in cui poggiano il piede sullo stesso gradino, le istantanee relative della loro identica posizione hanno lo stesso significato dinamico, poiché l’uno sale e l’altro scende.”, possiamo concordare sul fatto che, quando ci si incontra, non è detto che si arrivi dallo stesso posto, anzi, le probabilità sono ben poche! Solo questo ci posiziona strutturalmente diverso dall’altro. Salutarsi significa già dirsi tante cose, interrompere qualcosa di sé per accogliere l’altro.
Facciamo un esempio, Eric Berne disse che “salutare correttamente significa vedere l'altra persona, diventarne coscienti come fenomeno, esistere per lei ed essere pronti al suo esistere per noi”. Quando pensiamo ad una relazione non giudicante con l’altro, proviamo ad iniziare proprio dal saluto: come incontriamo e salutiamo questa persona o gruppo? Interroghiamoci sul come apriamo il periodo del qui e ora. Per un attimo prendiamo spunto dal contributo di teorie sviluppate a favore di operatori dei servizi a bassa soglia a contatto con persone gravemente emarginate, tossicodipendenti, sieropositivi, prostitute. A fronte di setting molto frammentati, in situazioni dove il qui e ora è l’unica possibilità e la frustrazione degli operatori diventa un limite enorme, la dott.ssa De la Ranci (Centro di psicologia e analisi transazionale, cooperativa sociale Terrenuove), definisce il concetto di “legame debole nella relazione di aiuto” come “un’opportunità per costruire nel "qui ed ora" un momento di incontro, di riconoscimento di sé e dell'altro, quali partecipi e protagonisti di una comune vicenda umana. Relazione a legame debole, relazione significativa in quanto relazione tra due soggetti che hanno la caratteristica di essere insieme, essere con l'altro, essere per l’altro."
Certo che, proponendovi un’immagine ferma dell’incontro, o per lo meno in “slow motion” semplifichiamo le cose. Sappiamo che nella realtà di tutti i giorni invece, incontrare persone, anche virtualmente attraverso una chat o un’app, i tempi sono velocissimi e, il tempo in quanto setting, agisce attivamente un ruolo importantissimo nell’incontro tra persone. Adottare una “postura” non giudicante nel qui e ora è un esercizio a dir poco complesso, che richiede allenamento. Se non ci siamo mai fermati a comprendere i significati della relazione non giudicante, diventa tutto più difficile e faticoso agire nell’immediato.
“L’operatore ha bisogno di un tempo di riflessione su ciò che agisce: ha bisogno di un’organizzazione che pensa e che costruisce per lui spazi di pensiero e di ricomposizione dell’esperienza. Un ambiente, relazionale, in cui sperimentare quell’etica di riferimento da tradurre in valori operativi: sospensione del giudizio, intersoggettività, okness, riconoscimento delle competenze.” Francesca Letizia, tratto da “Quaderni” a cura del Centro di psicologia e Analisi transazionale di Milano.
Per essere concreti, per lavoro mi capita di dover incontrare persone che hanno commesso reati contro la persona e con cui se, ad esempio, mi dovessi incontrassi al bar, avrei difficoltà nel gestire la dimensione del giudizio e del conflitto. Sostenere un colloquio con una persona che ha agito violenza su dei minori richiama nell’immediato un problema per l’operatore. Come riusciamo a passare dal bar ad un setting che accoglie anche loro?
Ci permette di accantonare l’elemento “io ti giudico per quello che hai fatto” e impostare un lavoro di relazione volto alla condivisione delle competenze “tra me e te”, oltre che di ruoli. Così, come una sorta di luce che illumina un percorso, ci permette di individuare una strada che può essere costruita insieme, raggiungendo un’intesa chiara degli obiettivi, dei percorsi possibili, della riparazione e molto altro.
Il discorso fin qui non fa una piega e, se volessimo essere deterministi, basterebbe evitare il giudizio quando parliamo con gli altri, o al massimo controllare le proprie emozioni e pregiudizi per non inquinare il nostro setting, ma credo che nella realtà non si possa riassumere così facilmente. Entrare in gioco con persone che vengono da luoghi che non ci piacciono, che non approviamo o che vorremmo non frequentassero, è un’operazione difficilissima, sempre.
In una relazione esistono molti punti di vista: interdipendenza, intersoggettività, fiducia, vicinanza e non giudizio, tutti elementi che in un solo dialogo possono variare da un opposto all’altro. A mio avviso è estremamente importante pensare la relazione non giudicante non come un modo per evitare contenuti di giudizio in generale, ma prendere la forma del giudizio come un’opportunità d’incontro, in cui esistiamo entrambi e la pensiamo diversamente. Dunque ascoltare e dialogare in una relazione non giudicante potrebbe farci affrontare quei contenuti che di solito non affronteremmo, proprio per evitare il giudizio.
In sintesi alla riflessione che ho voluto proporvi, agire così, in maniera non giudicante, è da intendersi sia un valore operativo, sia un vero e proprio strumento in grado di farci riconoscere l’importanza del giudizio nelle relazioni che, come educatori, cerchiamo di costruire per facilitare processi di emancipazione dall’altro.
Ragionare costantemente su come si è posizionati con l’altro e fermarsi per comprendere a fondo i significati che riusciamo mettere a fuoco è una pratica senza la quale rischiamo di esercitare poteri incontrollati, allontanandoci da ogni altro valore operativo dell’autodeterminazione, del protagonismo e dell’empowerment.
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