In questo articolo Laura Madonini introduce il concetto di “compiti di sviluppo” nel lavoro clinico con adolescenti con esperienze di maltrattamenti gravi e violenze, proponendo anche la testimonianza di alcune ragazze. I racconti fanno emergere che alcuni di questi compiti di sviluppo, impensabili e insormontabili inizialmente, sono diventati poi delle grandi risorse per ritrovare uno stato di benessere più equilibrato.
Lettura consigliata a: operatori sociali, educatori, psicologi, insegnanti.
L’integrazione nel gruppo dei pari, la formazione di nuovi legami e lo sviluppo di un senso di sé unitario sono solo alcuni dei compiti di sviluppo presenti in adolescenza. Laddove nella storia ci sono stati però dei traumi che hanno minato inevitabilmente la fiducia negli altri e frammentato il sé, questi compiti risultano insormontabili e impensabili, ma con duro lavoro e un tempo consono possono diventare anche delle porte d’accesso per poter tornare a stare meglio.
L’adolescenza rappresenta una seconda nascita rispetto a identità, relazioni e vita sociale. Un periodo della vita positivo e ricco di possibilità, ma che ha anche pericoli e criticità, soprattutto se si considera la rapidità con cui oggi viene chiesto ai giovani di affrontare i compiti evolutivi legati all’autostima, alla socializzazione, all’acquisizione di valori e obiettivi. L’adolescenza può essere una fase complicata non solo per i ragazzi, ma anche per i genitori, che possono trovarsi in difficoltà nella gestione di una crescente complessità sociale e delle influenze esterne al contesto familiare. Questa fase del ciclo di vita (11-21 anni) è caratterizzata dalla realizzazione di compiti evolutivi specifici, cioè compiti che si presentano in un determinato periodo della vita e la cui buona risoluzione conduce alla costruzione dell’identità adulta e al successo nell’affrontare eventuali momenti di difficoltà successivi (Gustavo Pietropolli Charmet, 2016).
Alcuni adolescenti sono particolarmente vulnerabili rispetto ad altri (ad esempio la mancanza di supporto di uno o entrambi i genitori; vissuti di abuso e/o maltrattamento, di abbandono, trascuratezza, esposizione a episodi di violenza nel loro contesto familiare o nel gruppo di pari, eccetera…).
L'ansia, i gesti autolesivi, l’uso non consapevole delle nuove tecnologie, il disturbo del comportamento alimentare e il ritiro sociale - hikikomori - sempre più in aumento (vedi studio HBSC 2022), esprimono le fatiche legate alla sensazione di non riuscire a realizzare se stessi in un futuro percepito come fallimentare e a non trovare un supporto relazionale utile, sia in famiglia che con i pari, soprattutto laddove ci siano state delle esperienze traumatiche nella loro storia.
Il senso di sé in adolescenza si costruisce all’interno di una dinamica relazionale con gli altri; inoltre, il movimento di emancipazione dalle figure genitoriali/adulti di riferimento comporta uno sforzo emotivo intenso da parte di tutti (anche degli adulti) e necessita della formazione di nuovi legami nel gruppo dei pari.
Come operatori non dobbiamo perdere la speranza e continuare a credere che i buoni legami sono davvero potenzialmente riparativi. Vi racconto una storia.
In occasione del convegno celebrativo organizzato per festeggiare il 35esimo anniversario del Mosaico Servizi, mi è stato chiesto di preparare un intervento per raccontare il nostro servizio clinico “Centro Come.Te – centro multiprofessionale per minori e famiglie” di Lodi, in una talk rivolta a rappresentanti di Istituzioni pubbliche e private e a colleghi che lavorano nel sociale nelle varie aree.
L’ora tarda del pomeriggio non avrebbe sicuramente aiutato a mantenere alta l’attenzione proponendo numeri ed elenchi… e poi ho sempre pensato che questi momenti possono essere delle buone occasioni in cui dare voce alle persone che incontriamo nel nostro lavoro, perché le testimonianze hanno un grande valore umano e questa assemblea poteva rappresentare una cassa di risonanza davvero importante. Inoltre, possono essere delle vere e proprie lezioni, in quanto riportano spesso dei riferimenti empirici delle nostre teorie di riferimento o fanno emergere delle possibilità di lettura, come in questo caso.
Occupandoci in maniera specifica di trauma e dissociazione, insieme alle colleghe del Centro Come.Te, abbiamo chiesto a 5 adolescenti - che presentano storie molto dolorose costellate di violenze, abbandoni e gravi trascuratezze e che seguono un percorso di psicoterapia da qualche anno - di raccontare il loro punto di vista su due questioni principali:
Le loro testimonianze, create con disegni e scritti in maniera libera, mi hanno sorpreso molto per la profondità dei loro rimandi e per un filo conduttore. Da ognuna di esse emerge che la cura di sé, percependosi persone più integrate e non frammentate (con la psicoterapia, ma non solo!) e i legami significativi con gli altri, sono stati due tasselli fondamentali per ritrovare quella serenità e quella pace perse, entrambe minate dalle esperienze di violenza. Per ciascuno di loro, all’inizio del percorso, questi due aspetti erano molto fragili: non erano mai stati abituati a prendersi cura di sé. Non avevano avuto molte esperienze di cura familiare e il mondo esterno era vissuto come potenzialmente pericoloso. Non ci si poteva fidare degli altri, neanche di quelli che sembravano accoglienti e disponibili, in quanto la vicinanza affettiva era un possibile riattivatore traumatico dell’attaccamento (lo approfondiremo nei prossimi articoli!).
All’inizio del loro percorso, queste persone adolescenti ritenevano davvero impensabili i due compiti di sviluppo; dopo tanto lavoro, impegno, collaborazione con la famiglia/adulti di riferimento e con la rete di supporto (scuola, servizi, sport, ecc.), questi due compiti si sono trasformati in grandi risorse che le aiutano ancora oggi a stare meglio. Le loro testimonianze non hanno sicuramente il peso di una ricerca scientifica, ma sono molto significative da un punto di vista clinico e in questo video potete trovare alcuni stralci:
Sul finire di questo mio intervento, mi torna alla mente una citazione dal libro “Feccia” di Paul Williams (2017):
“L’adolescenza è un’età difficile. L’adolescenza privata della propria infanzia un’età incomprensibile. Con la crescita le esperienze si moltiplicano e gli eventi si susseguono rendendo indispensabile il soccorso della mente. Un’adolescenza senza testa, senza una testa pensante, è come una biglia d’acciaio che rimbalza a caso in un flipper. Il pensiero s’impana… le parole scivolano via… le emozioni diventano il nemico peggiore”.
Per noi operatori, attivare la “testa pensante” delle ragazze e dei ragazzi che incontriamo, deve rappresentare un faro nel navigare con loro, oltre che un volano per ritrovare se stessi e riscoprire gli altri.
Nella vostra esperienza lavorativa, pensando ad alcuni adolescenti che avete incontrato, quali sono stati i tasselli fondamentali nel loro percorso di cura con voi? Che peso hanno avuto queste due porte d’accesso: un sé unitario e il legame con gli altri?
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