Di Laura Madonini e Francesco Cavalli
In questo articolo Laura Madonini e Francesco Cavalli condividono l’approccio sperimentale che ha cambiato la loro esperienza lavorativa negli ultimi anni. Partendo dalla loro esperienza sul campo, propongono alcune riflessioni aprendo possibilità dell’approccio partecipativo multidisciplinare con adolescenti e famiglie, analizzandone le principali criticità.
Lettura consigliata a: operatori, insegnanti
Sostenere la metodologia partecipativa nella pratica professionale per operatori sociali e clinici che si trovano o scelgono di lavorare con ragazzi e adulti in gravi difficoltà è un compito molto arduo. L’approccio a cui ci riferiamo è multidimensionale, sociale e clinico, ispirato ad una metodologia partecipativa fondata sul valore del protagonismo attivo della persona e dell’empowerment.
Di certo non è sufficiente scrivere sulle carte dei servizi o sui siti web alcuni concetti metodologici chiave, o affermare di creare partecipazione senza coinvolgere in ogni fase direttamente i ragazzi e gli adulti che si occupano di loro. Non significa neanche creare percorsi di presa in carico con attività variegate o percorsi terapeutici scelti a priori e calati ai diretti interessati. Diciamocelo: non basta condividere con le famiglie quello che la rete degli operatori ha scelto per loro e poi stupirsi e rammaricarsi che i progetti non funzionano.
Qualche anno fa, durante un incontro formativo che abbiamo seguito come gruppo di lavoro insieme ai colleghi dell’Area Minori e Famiglie del Mosaico Servizi, abbiamo iniziato ad approfondire in maniera sistematica e concreta l’approccio partecipativo relazionale. Una docente ci ha presentato un testo di Alberto Moravia, “L’uomo come fine”, che raccontava con grande maestria i dubbi e le perplessità che spesso attraversano gli operatori nel lavoro di cura e presa in carico.
Centralità delle persone, scelte metodologiche, consapevolezza e rispetto dei diritti fondamentali sono i punti chiave. Quegli incontri sono stati per noi un punto di svolta importante; abbiamo iniziato a interrogarci molto sulle nostre prassi, mettendo in dubbio alcuni processi e strumenti.
Condividiamo un breve estratto del libro e consigliamo a tutti gli interessati un approfondimento, perché merita davvero:
“Sono un conquistatore venuto d’oltre oceano e il mio governo mi ha assegnato in premio dei miei servizi la proprietà di una vasta contrada. Ancora prima di prendere possesso del mio feudo, ho deciso, dopo averlo esaminato sulla carta, di tracciarvi una strada. La contrada è divisa fittamente in poderi di varia estensione, è traversata da un fiume e da numerosi corsi d’acqua minori, è sparsa di cascinali e altre costruzioni. Mi si presentano due maniere di tracciare la strada. La prima maniera consisterà nel rispettare i limiti dei poderi, nel contornare i cascinali, nel varcare il fiume nel punto più stretto, nel lasciare intatti cappelle, frantoi, mulini, pozzi, officine, campi sportivi, nell’evitare le zone rocciose e quelle paludose. La seconda maniera consisterà invece nel tracciare la strada senza curarmi degli ostacoli. Ho la legge dalla mia parte, ossia un decreto del mio governo. La prima maniera è certamente la più lunga e, almeno per il momento, la più dispendiosa. Così la scelta dipenderà da me, da ciò che io sono, ossia da ciò che io sono in relazione con gli uomini della mia contrada. Se io sarò capace di considerarli uomini e non materia inanimata adotterò certamente la prima maniera; in caso contrario sarò costretto, anche ove non fossi portato per temperamento a farlo, ad adottare la seconda. Questo è il mio dilemma”.
Edgar Morin sostiene che di fronte alla complessità siamo chiamati ad abbandonare i programmi per sostituirli con delle strategie. “La strategia può e deve effettuare compromessi. Questa deve talvolta privilegiare la prudenza, talvolta l’audacia e, se possibile, entrambe insieme.” (E. Morin, 2001). Nelle tempeste, è utile non perdere la bussola e in questi anni, l’incontro con persone molto sofferenti, il confronto interno tra colleghi e con operatori di altri servizi, ci hanno aiutato a sistematizzare le fondamenta per un lavoro partecipativo immaginabile. Ecco i possibili punti chiave:
1. Coinvolgere le Istituzioni, condividere con la rete il metodo di lavoro rispettando ruoli e mandati in una logica di welfare di comunità
per un approfondimento sul concetto Welfare di Comunità segnaliamo questo articolo di Impresa Sociale Con i Bambini
2. Identità chiara: cornice trauma-informed e approccio sistemico alle complessità
A cui si aggiunge una formazione costante, la supervisione e uno sguardo attento di self-care per gli operatori. Tre ingredienti molto utili nella gestione della compassion fatigue e di prevenzione del burn-out.
3. Cinque tappe come bussola fondamentale: accoglienza, valutazione, progettazione, intervento e chiusura/riprogettazione.
Avere un metodo di riferimento e degli strumenti chiari e in linea con i propri valori risulta fondamentale nel lavoro con le complessità. Ogni punto meriterebbe un approfondimento e dei riferimenti specifici, in questo articolo abbiamo scelto di riportare alcune sollecitazioni per inquadrare i principi che ci guidano nel lavoro quotidiano. Seguiranno altri scritti dove andremo a dettagliare meglio questi concetti, portando esempi e storie.
Ma andiamo per punti…
L’adolescenza rappresenta un periodo della vita positivo e ricco di possibilità, ma anche di criticità e di rischi, soprattutto se si considera la rapidità con cui oggi viene chiesto ai giovani di affrontare i compiti evolutivi legati all’autostima, alla socializzazione, all’acquisizione di valori e obiettivi.
L’adolescenza può essere una fase complicata non solo per i ragazzi, ma anche per i loro genitori, che possono trovarsi in difficoltà nella gestione di una crescente complessità sociale e delle influenze esterne al contesto familiare. Questa fase del ciclo di vita (11-21 anni) è caratterizzata dalla realizzazione di compiti evolutivi specifici, cioè compiti che si presentano in un determinato periodo della vita e la cui buona risoluzione conduce alla costruzione dell’identità adulta e al successo nell’affrontare eventuali momenti di difficoltà successivi (Gustavo Pietropolli Charmet, 2016).
Questa vulnerabilità viene incentivata da alcune situazioni, pensate ad esempio alla mancanza di supporto di uno o entrambi i genitori, situazioni di abuso e/o maltrattamento, abbandono, trascuratezza, esposizione a episodi di violenza nel loro contesto familiare o nel gruppo di pari… la lista di esempi, purtroppo, è infinita!
L’orizzonte delle adolescenze che incontriamo è caratterizzato spesso da tanta sofferenza: autolesionismo, ideazioni suicidarie, disturbi alimentari, azioni violente,
consumo alcool e sostanze, sessualità a rischio, ritiro sociale e/o scolastico, ansia generalizzata, disturbi dissociativi e molto altro.
La pandemia inoltre ha contribuito ad aumentare la sofferenza di molti ragazzi che già da diversi anni esprimono sempre di più le difficoltà attraverso sintomi che vedono il corpo come lo strumento per mostrare il proprio dolore.
Nel dialogo con i ragazzi e con le famiglie emergono spesso racconti di traumi complessi molto dolorosi, di conflittualità aperta e di povertà educativa. Il concetto di trauma complesso riporta in maniera più efficace la pervasività dell’impatto delle esperienze sfavorevoli infantili e, come dice Herman, i relativi effetti sulla personalità, sulle relazioni, sulla regolazione emozionale, sull’identità e sul sistema di significati.
Insieme agli adulti di riferimento e agli adolescenti stessi, la psicoeducazione e l’individuazione dei fattori protettivi e di rischio all’interno della storia della famiglia e il lavoro basato sul loro rinforzo/contenimento in collaborazione con la rete e con la comunità educante (Barrett M.J. e Stone Fish, 2014) rappresentano un punto di lavoro fondamentale nelle fasi di accoglienza e valutazione.
Partiamo da un assunto: le esperienze uniche non sono irripetibili ma possono generare prassi ed essere promotrici di cambiamento non solo per l’educatore e l’educando ma anche per il “sistema”. Ecco che, se dovessimo intitolare il nostro lavoro con gli adolescenti e farci stare dentro relazioni tra operatori, bisognerebbe essere scrittori di romanzi o di saggi, giornalisti, antropologi, psichiatri e psicologi e sociologi allo stesso tempo. L’unicità di queste relazioni sta nel trattare infiniti discorsi o silenzi lunghissimi, sono caratterizzate dalla ricerca reciproca di significati dei vissuti oggetto del confronto, di problemi giganti e violenti, di movimenti quasi impercettibili e di competenze fluide dell’adolescenza.
Tale immagine restituisce un groviglio di informazioni, significati, racconti, desideri, che solo a decifrare il tutto diventerebbe un’impresa, quindi l’operatività di un progetto educativo taglia, fa sintesi, raccorda la parte dell’adulto con quella dell’adolescente attraverso un patto, un progetto desiderato a più voci, che libera la persona dai bisogni e determina gli obiettivi, affronta insuccessi e fallimenti, rompe etichette e disgrega stereotipi portandosi dietro maltrattamenti e violenze.
Nel lavoro con gli adolescenti, l’unicità è la chiave di progettazione, il plurale è la grammatica da utilizzare, posizionarsi potrebbe significare semplicemente imparare ascoltando.
Citando Paulo Freire:
“Lo spazio dell'educatore democratico che impara a parlare ascoltando, è attraversato dal silenzio intermittente di chi, mentre parla, tace per ascoltare l'altro che, silenzioso e non messo a tacere, parla.”
Queste unicità sono troppo complesse da categorizzare, quasi impossibili da pubblicare come dato statistico, almeno per chi è in prima linea ed è coinvolto come responsabile del progetto inteso come percorso di cura e crescita.
Se pensiamo agli ultimi nostri due anni di lavoro, tutti i ragazzi e le ragazze con cui abbiamo lavorato, non parlavano molto. La loro abitudine al dialogo con l’altro era complessa, spesso confinata al mondo virtuale, nel web. Con gli adulti al di fuori della sfera domestica la comunicazione era totalmente assente, con gli adulti in casa diventava invece conflittuale e violenta.
Inizialmente, con i nostri colleghi, abbiamo trovato subito un nome: “ritiro”. Inteso come ritiro sociale, esordio patologico, disagio evolutivo, pandemia. Ci sbagliavamo in quanto l’etichetta arrivava troppo prematuramente, ancora prima di conoscere e ascoltare. Tendevamo a ricondurre persone diversissime tra loro ad un unico fenomeno! A pochi mesi dal lockdown, abbiamo completamente distrutto questa formula e abbiamo iniziato ad ascoltare.
Da qui il valorizzare le unicità diventa un’esperienza di ascolto e di farsi piano piano portavoce nei luoghi istituzionali, di cura e di protezione della persona minorenne (o in prosieguo amministrativo). Tale esperienza diventa quindi approccio, all’interno del quale condividiamo routine, setting in grado di facilitare lo stare insieme e dare concretezza all’accoglienza.
Come operatore comprendi che bisogna trovare un modo per raccontare ciascun dettaglio, in quanto è un modo per uscire dalla marginalità dell’esperienza relazionale, attraversare le istituzioni della sfera pubblica e comprendere di lavorare con cittadini e non con degli “utenti”. Ecco che quest’ultimo punto permette di identificare l’operatore e l’adolescente che sperimentano fiduce, poteri ceduti, costruzioni di soppalchi di una trasformazione aperta al mondo. Includendo tutte queste esperienze, l’operatore deve essere pronto ad includere nel proprio posizionamento il concetto di “portavoce/advocacy” all’interno dei processi decisionali caratteristici delle reti sociali per persone in carico ai servizi sociali e di tutela minori.
“il portavoce aiuta il minore a sviluppare un proprio vocabolario emotivo che gli permetta di esprimere e dare un nome alle proprie emozioni, desideri e bisogni. L’advocacy promuove processi
incrementano l’autostima e il senso di autoefficacia consentendo quindi al bambino di riacquistare controllo sulla propria vita e sulle decisioni che lo riguardano” come sostiene la Cooperativa sociale Casa davanti al sole.
Farsi portavoce, come operatore di percorsi che accolgono adolescenti, significa posizionarsi correttamente sia nella rete sociale dell’adolescente, sia con l’adolescente stesso. Il criterio da non perdere di vista è l’indipendenza e l’ascolto. L’operatore di advocacy agisce in modo indipendente rispetto al processo decisionale e ai servizi; il suo compito non è quello di prendere una posizione, ma di agire a fianco del minore senza conflitti di interessi.
Ciò permette la costruzione condivisa di percorsi d’aiuto partecipati, costituendo un dovere etico e in molti casi anche legislativo per gli operatori impegnati al fianco di minori e famiglie.
Molte volte, nel quotidiano del nostro lavoro, sentiamo e parliamo di prassi, di teorie di riferimenti, di approcci, metodi e procedure, parliamo di reti e co-progettazioni. Come operatori costruiamo nel quotidiano un dialogo tra noi aprendo campi e strade che, a nostro avviso, necessitano di focalizzarsi sul problema di come si fa ad unire due mondi così differenti, due mondi che potremmo chiamare teoria e pratica.
Spesso ci chiediamo se la teoria confinata nei mondi accademici e di ricerca si può avvicinare al mondo della pratica, del reale. La pratica, per lo meno quella educativa, è una prassi (per dirla in termini “freiriani”, azione e riflessione) umana e sociale, che si basa sulla relazione tra educatore e educando, tra due persone che ricoprono un ruolo differente, esplicitando quella che viene chiamata asimmetria educativa, ma che umanamente si trovano ad interagire. Se tale prassi resta sola, isolata dal mondo delle teorie e delle ricerche inevitabilmente resterà nascosta nelle esperienze di vita vissuta, non emergerà come stimolo al mondo. Questo non è un problema limitato alla sola visibilità delle pratiche, come pubblicare articoli su riviste di settore o organizzare convegni.
Il flusso che unisce la teoria e la pratica potrebbe essere la ricerca, la ricerca azione, la valutazione di impatto sui servizi dove le pratiche sono quotidiane, l’esperienza del modello di co-progettazione, progetti che concludono monitoraggi pubblici, consapevoli che ciascuna di queste realtà porta con sé diverse fattori problematici. Ad esempio, la temporaneità, la complessità di unire organizzazioni che faticano nel dialogo tra di loro, l’autoreferenzialità dei territori e delle organizzazioni stesse.
Scriviamo questo per dare contesto ad una prassi specifica che necessita di attenzione sia teorica che pratica, forse in egual misura: la pratica multidisciplinare. Quando parliamo di multidisciplinare potremmo dire di essere nel mezzo del flusso che unisce teoria e pratica, all’interno di un movimento che è costantemente orientato e interrogato dal confronto di persone con ruoli e formazioni differenti, educatore ed educando, psicoterapeuta, assistente sociale, psichiatra e così via.
Si potrebbero dire tante cose, ma proviamo a semplificare fin dall’inizio l’esperienza della pratica multidisciplinare proponendo il modello più semplice che utilizziamo nei servizi, ovvero l’equipe multidisciplinare (EM). L’EM è un metodo di confronto efficace, a cui potremmo aggiungere un’infinità di ragionamenti, su come diverse professionalità generano confronto e conflitto, su come il senso di tutto questo è costruire insieme alla persona i suoi soliti “vestiti su misura”.
Per affrontare la complessità delle sofferenze di persone adolescenti in esordio patologico, esse possono aver bisogno di una squadra che opera come un’orchestra sinfonica, in cui ciascuno rispetta lo spartito e i tempi, in cui vi è il direttore che gesticola e dirige ciascun elemento a suonare il proprio strumento, e non quello del vicino.
La realtà che viviamo è che spesso le nostre prove d’orchestra fanno schifo, ne usciamo in malo modo, forse per le stesse problematiche a cui accennavamo prima.
La pratica dell’equipe multidisciplinare comprime le esperienze teoriche interrogando il professionista sul proprio ruolo e mettendo in risalto la differenza che tale ruolo esercita nell’operatività. Certo, bisogna scegliere e accordarsi su chi dirige l’orchestra, chi è il solista e chi sono i suonatori, senza dare per scontato l’utilità dei giochi di ruolo che ci aiutano a posizionarci e che, se dovessimo nominare il direttore d’orchestra ad un adolescente problematico, diventerebbe tutto più interessante anche ai suoi occhi.
Se il tema che affronta la squadra è di natura teorica, l’esercizio del confronto potrà prendere pieghe e strade inaspettate, forse ingovernabili. Se il tema del confronto sarà la persona, non intesa come la sua valutazione scientifica che allontana i diversi professionisti da loro, ma intesa come interazione con essa, come pratica dell’asimmetria che tende ad accordi precisi per la gestione dei poteri e di come e quando cederli all’altro. Solo allora potremo avere una prassi multidisciplinare che aspira ad un punto importantissimo: la condivisione e partecipazione dell’altro nei discorsi di decisione e confronto.
Quello che cerchiamo di introdurre è la caratteristica più forte dell’equipe multidisciplinare: la condivisione. Basta pensare che tutti gli attori del gruppo di lavoro hanno a che fare con la stessa persona e quindi, viceversa. Citiamo una ragazza che partecipa ad un nostro servizio e che spesso ci chiede: “Questa settimana la riunione è a porte chiuse per i vostri segreti di stato, o ci sarò anche io?”
Per gli esordi patologici, esistono diversi contesti di cura e il nostro è di comunità territoriale per cui adottiamo il metodo partecipativo, ovvero un “processo di condivisione delle decisioni che incidono sulla vita del singolo, sulla famiglia e sulla comunità di appartenenza” (Hart, 1992).
Tale pratica è una sperimentazione che per essere concretizzata deve integrare tre dimensioni necessarie: la cura, la comunità e il territorio.
La cura intesa come progetto che mette insieme e a confronto approcci clinici e terapeutici con progettualità finalizzate al prendersi cura di sé.
La comunità intesa come relazioni solidali possibili e necessarie, per generare cultura e luoghi in grado di accogliere adolescenti che vivono momenti di forti problematiche.Il territorio inteso come espressione e responsabilità politica, che deve farsi carico delle persone rendendo sostenibile la “spesa” di risorse professionali ed economiche necessarie.
Lavorare in contesti di cura di comunità territoriale significa costruire reti. Costruire questo implica lavorare nell’ottica del “con”: collaborazioni con altre istituzioni formali e informali (scuole, agenzie educative della comunità educante, ecc.). Di volta in volta, il gruppo della rete degli operatori valuta insieme come lavorare con la rete del territorio. Gli operatori dello spazio occupazionale hanno responsabilità nell’attivazione e nel coinvolgimento della rete, svolgendo dunque la funzione di facilitatore e non più di portavoce.
Investendo tempo e risorse per permettere di lavorare con e nelle reti significa poter garantire al minore e alla sua famiglia un alto livello di partecipazione alla stesura del proprio progetto di vita, come cucire a più mani un abito su misura per indossare l’unicità!
La nostra metodologia partecipativa è rappresentata da 5 fasi, che noi amiamo definire “tappe”, proprio perché ci ricordano un percorso: accoglienza, valutazione, progettazione, intervento e chiusura.
Ciascuna di queste tappe è caratterizzata da setting diversi, che a loro volto sono costruiti attraverso variabili mutevoli: tempo, spazi, incontri, attività o strumenti che, di volta in volta, si sceglieranno con le persone accolte e che saranno oggetto di condivisione con la rete degli operatori. Con il termine “partecipativo" intendiamo una realtà progettuale che tende al protagonismo, sul rinforzo positivo e sull’empowerment, ma anche sul lavoro di rete che vede nel “chi fa cosa” non una semplice suddivisione degli incarichi, ma la costruzione di una visione condivisa del percorso.
Tale percorso è strutturato in fasi, condivise con il minore, la famiglia e la rete; uno schema che viene adottato per rispettare i concetti di progressività e prevedibilità. Un sistema fondamentale per gli operatori dello spazio occupazionale: ciò permetterà loro di essere il più chiari possibili con minori in estrema difficoltà, per far loro comprendere il senso di “qui e ora”, per aiutare i minori a fidarsi di figure esterne, per la transizione della loro quotidianità… tutti aspetti molto delicati per le famiglie con esperienze sfavorevoli e dolorose.
Questi percorsi devono avere dei tempi e setting diversi da quelli del mondo, più vicini a quelli degli adolescenti e delle famiglie: è un lavoro di equilibrio e di calibrazione continuo con i Servizi, con le Scuole e con la comunità educante.
L’approccio partecipativo relazionale non rappresenta più una scelta, ma una risposta necessaria ai bisogni stessi delle persone che incontriamo. Promuove l’empowerment, attiva le risorse possibili ed entra in gioco condividendo il punto di vista di tutti, aiutando a creare connessioni con sé, con la famiglia, con gli altri e con la comunità.
Come viene ampiamente dettagliato dagli autori de “Le sei fasi della resilienza” (Selvini, Fino, Redaelli, Senatore - 2022), nel processo di cambiamento e di attivazione delle risorse: “tutte le parti sono responsabili, privilegiando l’attivazione del sistema cooperativo”, in cui ognuno gioca un ruolo fondamentale nella squadra!
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